venerdì 18 febbraio 2011

Voglio dimenticare i miei confini

NO SALVATION. Era la destinazione di cui avevo bisogno. Sentivo il richiamo di quel nome disperato risuonarmi nell’anima, presi il teleport e partii. Ci misi un po’ prima di abituarmi all’oscurità del punto d’arrivo, ma prima ancora di vederle potevo sentire le grosse mura medievali per l’umidità fetida che emanavano. Ero in una cattedrale sconsacrata, una luce blu filtrava dalle finestre. Oltre, il mare.
Foto di mo_werefox
Persi molto tempo a perlustrare accuratamente l’interno, come se ogni pietra, ogni edera potesse rivelarmi il perché dell’essere. Unico angolo abitabile, un piccolo salone con un camino acceso. Mi abbandonai sul divano rosso, incurante di polvere e stagnazione. Rimasi così per un tempo incommensurabile, poi facendomi violenza mi alzai. Non volevo consumarmi nell’inedia, se dovevo finire doveva essere in un altro modo.
L’esterno era immerso in una  luce verde scuro che contagiava di tristezza. Mentre la solitudine mi straziava, ogni particolare sembrava accelerare la corsa verso l’annientamento. Tombe, mausolei, croci e urne, tutto era un’invocazione al nulla e un invito a raggiungerlo. Ebbi per un momento la tentazione di lasciarmi scivolare nella gelida acqua nera sotto di me, novella Ofelia, sotto lo sguardo implacabile dell’angelo della morte, tronfio dei suoi invariabili successi. Persino i numerosi piccoli papaveri rossi avevano perso il loro richiamo caldo e costellavano ora quel giardino tristo, come tante gocce di sangue rappreso.
Rientrai, anche se le rovine ormai avevano cancellato i confini tra dentro e fuori. Una sala ampia, la sala dei sacrifici. Quattro candele agli angoli di un altare, fra colonne e vetrate infrante a metà.
Mi stesi sul tavolaccio nero, pieno di grumi rossi e densi, appiccicosi. Per un momento mi lasciai andare completamente alla disperazione, confondendo le mie lacrime con la pioggia leggera che aveva iniziato a scendere. I rintocchi delle campane lasciarono il posto ad un durissimo gothic rock, e permisi alle note di rotolare come pietre sui pezzi della mia anima. Poi iniziò una ballad, la pioggia era cessata ma io non mi mossi dall’altare sacrificale. Un raggio di sole mi accarezzò, oltre la vetrata. Decisi che non era ancora arrivato il momento. Mi alzai, in mezzo alla grande sala catturata da una natura inselvatichita osservai un disegno misterioso sul pavimento. Mi accucciai e lo sfiorai con la mano. Il mio corpo prese vita ed iniziò a muoversi sinuosamente seguendo la musica. Sentivo la vita rientrare prepotentemente nelle mie fibre, catturare ogni angolo di me. Mi feci raggiungere da Patsy. Ballammo come possedute, senza sosta, senza aprir bocca, lasciando che fossero le intime vibrazioni delle nostre intimità a parlare. Ballammo, e ballammo ancora, e più lo sfinimento sano dei corpi arrivava, più le anime si liberavano, più ci si illudeva in una purificazione a venire. Eppure ballammo ancora, e quando altri arrivarono, noi ormai eravamo ombre pure perse nella notte.



(pubblicato originariamente in data 21/10/2010)

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