Una macchia scura attira il mio sguardo da lontano: una macchia scura nel candore del manto nevoso, in contrasto con il cielo rosa pallido. E' un pezzo di muro, sopravvivenza di qualcosa che è rovinato. Dentro, una gabbia d'uccelli. Dentro la gabbia, un corvo. Grande, con le ali aperte che urtano le sbarre.
Ci sono due corvi, in verità: uno, appena più piccolo, è posato sul muro. Libero, eppure fermo, a guardare sgomento il compagno in gabbia. Libero, eppure immobile al suo posto, muto spettatore - o spettatrice? - di un'ordinaria tragedia. Il compagno, prigioniero, ha rinunciato ad ogni velleità, ha rinunciato persino a se stesso. Le ali aperte - ora comprendo - non cercano di spiccare il volo oltre le sbarre, sono una rassegnata offerta di sè al destino. E la compagna sta immobile, e la sua fissità la rende complice del consumarsi altrui e il legame è per lei una gabbia più forte di quella con le sbarre di ferro. Libera, ma non più libera, condannata a vivere il silenzio dell'agonia dell'altro. Dell'amato. Ma che cos'è amore? Non è lottare, non è strappare l'altro alla punizione che si è inflitto, non è gridare che c'è altra vita oltre quel monte?
Vorrei spaccare la gabbia e liberarle entrambe nel cielo carico di neve, ma so di non poterlo fare. Talvolta - o sempre? - la libertà va rispettata oltre ogni raziocinio. Mi allontano, il rumore dei passi attutito dal manto bianco, rispettando quel mortifero silenzio che fa risuonare un'eco dolorosa nella mia anima. Sto per attraversare il ponte di ghiaccio, e invece mi fermo. Torno indietro. Mi siedo nella neve, vicino al muro. Resto.
(pubblicato originariamente in data 02/12/2010)
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