domenica 4 settembre 2011
Annientami
E' un tranquillo pomeriggio di domenica. Nessuno in giro, un'ottima musica come sola compagna. Le condizioni giuste per stendersi sul mucchio di cuscinoni un po' logori del mio ufficio da reporter, proprio sotto la parte di soffitto che manca, in dialogo diretto con il gancio della gru. Stendersi e riflettere. Stendersi e lasciare che la mente ricucisca con lavoro paziente i tanti momenti della mia SL. Seguire quel filo che si annoda, si libera, si riannoda, sentire il pizzicore dell'ago che entra ed esce dalla texture dei sentimenti e delle logiche.
Dalle profondità del passato emerge l'id. Risale a molto tempo fa, è il mio peccato originario.
Quello per cui cerco ancora espiazione, senza trovarla, perchè probabilmente cerco nei posti sbagliati.
Si cerca il significato del peccato nei sistemi più o meno definiti che l'essere umano ha trovato per trattare con l'Infinito, ma è più in basso che bisogna guardare. E' un affare puramente umano. Il peccato dell'uomo sull'uomo, è questo che genera tormento, e il tormento è il crogiolo dell'espiazione, indecisi come sempre tra resurrezione e perdizione. Non è questa l'uscita, ma bloccati da un Lag dantesco non vediamo ancora la luce. E' così che la sofferenza diventa rappresentazione di se stessa, estremo alito di Narciso che cerca l'identità perduta.
Annientami, solo così potrò finalmente Essere.
Ma non è l'appello all'amato, non può che essere rivolto allo sconosciuto, al Senza-volto.
Mi porto le mani al collo: il metallo e il cuoio del collare mi danno una lieve scossa, sussurrano che è tempo di andare. Complici e carnefici.
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